STRUTTURA TEORICA DI RIFERIMENTO: LA TEORIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE
Questo approccio, nato verso la metà del secolo scorso, analizza gli schemi comportamentali e cognitivi del paziente cercando di identificare e modificare quelli “sbagliati”, ovvero quelli che creano disagio alla persona stessa. Il presupposto è che la sofferenza ha origine dall’apprendimento di comportamenti e schemi nocivi e distorti che producono la malattia o il disagio in genere.
E’ importante tenere presente che molti ricercatori contemporanei continuano a ritenere che, anche se la terapia comportamentale si trasforma in senso cognitivo, le procedure comportamentali sono molto più potenti di quelle esclusivamente verbali per influenzare i processi cognitivi (Bandura, 1977).
In altre parole essi preferiscono le tecniche comportamentali, pur sostenendo che è importante modificare le convinzioni di una persona per produrre un cambiamento durevole nelle sue emozioni e nel suo comportamento. Bandura afferma che tutte le procedure terapeutiche, nella misura in cui sono efficaci, portano ad un miglioramento perché danno alla persona un senso di padronanza, di autoefficacia. Al contempo egli ritiene che il modo più efficace per ottenere un tale senso di autoefficacia, quando questo è carente, consiste nel modificare il comportamento.
I terapeuti cognitivo-compertamentali continuano ad essere comportamentali nel loro servirsi di procedure basate sulla prestazione e nell’importanza che attribuiscono alla modificazione del comportamento, ma sono cognitivi nel senso che ritengono che il cambiamento cognitivo (per esempio un maggiore senso di autoefficacia) sia un meccanismo importante, responsabile dell’efficacia almeno di alcune procedure comportamentali.
Cognizione e comportamento s’influenzano reciprocamente e continuamente; un nuovo comportamento può modificare il pensiero e quella nuova modalità di pensiero può, a sua volta, facilitare il nuovo comportamento (Davison e Neale, 2000).
Inoltre, l’ambiente influisce sul pensiero e sull’azione ed è da essi influenzato.
Questo modello, definito reciprocità triadica da Bandura (1977), evidenzia la stretta interconnessione tra pensiero, comportamento e ambiente.
Si può affermare, dunque, che non esista una differenza sostanzialmente netta fra la posizione cognitivista e il paradigma dell’apprendimento ed in questa direzione i ricercatori stanno studiando la complessa interazione fra convinzioni, aspettative, percezioni e atteggiamenti da una parte, e comportamento manifesto dall’altra.
Dalla teoria skinneriana dell’apprendimento attraverso il condizionamento operante, si può ricavare anche una teoria della personalità: infatti i comportamenti appresi non sono soltanto relativi all’ambito della conoscenza e dell’esplorazione dell’ambiente, ma anche a processi emozionali e motivazionali che, attraverso il rinforzo, il bambino, per esempio, impara ad associare a determinate situazioni.
Può perfino succedere che si fissi nel comportamento di una persona un’associazione “sbagliata”, cioè non funzionale al suo adattamento.
Secondo Skinner (1974), infatti, anche il disadattamento può essere appreso, per esempio attraverso la persistenza di un meccanismo di paura associato ad uno stimolo condizionato: anche quando una certa situazione non rappresenta più un pericolo per il soggetto, resta la paura come risposta completamente appresa.
Oppure può essere rinforzata casualmente una certa risposta comportamentale: per esempio in un momento di depressione, un soggetto può avere ricevuto un buon voto scolastico; in seguito egli potrebbe associare ad uno stato depressivo il rinforzo ricevuto.
Oppure, ancora, in una situazione negativa possono essere stati ricevuti dal soggetto “vantaggi secondari” che hanno agito come rinforzo, e così egli può cercare di mettersi di nuovo in quella situazione (come per esempio le persone che desiderano avere piccoli malanni per venire curate ed accudite).
Atteggiamenti e comportamenti appresi “erroneamente” possono diventare disposizioni stabili della personalità.
In questa ottica, però, i condizionamenti ambientali hanno una forte influenza sul comportamento dell’individuo e, quindi, lo stesso meccanismo di condizionamento, per cui si è stabilizzato un atteggiamento o un comportamento non funzionale (causa di sofferenza e inadeguatezza), può essere utilizzato per decondizionare l’individuo (attraverso l’estinzione delle risposte indesiderate), e per rinforzare la comparsa di risposte socialmente desiderabili.
Su questi principi si basano le psicoterapie comportamentali.
A partire dalle posizioni di Skinner, proprio lo psicologo americano Albert Bandura (1969) elabora una teoria sociocognitiva della personalità (nel senso che si fa risalire le personalità a processi cognitivi e sociali).
La base del comportamento umano, secondo Bandura, è l’apprendimento, che avviene non solo attraverso il rinforzo di comportamenti operanti, ma anche attraverso il meccanismo dell’imitazione.
Anche Bandura però si accorge che le sole circostanze esterne (aspetto e comportamento del modello) non sono sufficienti a determinare un atteggiamento; così, per spiegare per esempio l’assunzione da parte del soggetto di comportamenti di aggressività, deve rifarsi a sue proprie caratteristiche di personalità, cioè a disposizioni interne (che a loro volta possono essere state apprese) preesistenti alla situazione.
Anche le emozioni possono essere acquisite per apprendimento sociale: è questa l’origine di molte paure, che il bambino normalmente non proverebbe, ma che apprende osservando gli adulti che lo circondano.
La personalità, secondo questo autore, è qualcosa che il bambino si costruisce nelle relazioni sociali attraverso l’apprendimento; in questa ottica gli aspetti patologici della personalità possono essere suscettibili di cambiamento se il soggetto viene sottoposto ad un nuovo apprendimento.
I terapeuti che si identificano con l’approccio cognitivo-comportamentale lavorano sia a livello cognitivo che comportamentale, e la maggioranza di coloro che impiegano concetti cognitivi e cercano di modificare con strumenti verbali le convinzioni dei pazienti si servono anche di procedure comportamentali per modificare direttamente il comportamento.
I processi di valutazione svolti dall'individuo influenzano la relazione dinamica (o transazione) tra l’individuo e l’ambiente sociale che lo circonda. In tale contesto, il coping (o fronteggiamento) si riferisce agli sforzi comportamentali e cognitivi rivolti a padroneggiare, ridurre o tollerare le richieste interne e/o esterne che sono state generate dalle transazioni stressanti (Lazarus e Folkman, 1984).
BASI CONCETTUALI DEL METODO “PSICODIZIONE”
Il ruolo della cognizione
Poiché la natura dei pensieri durante un evento stressante quale il manifestarsi della balbuzie, riveste un ruolo importantissimo nella determinazione dello stress stesso, è utile considerare più in dettaglio il ruolo della cognizione.
Meichenbaum (1990) ha descritto gli eventi cognitivi come una forma di “dialogo interno” che si avvia quando l’autenticità, dovuta all’abitudine e alla facilità di un dato comportamento, viene interrotta. Questo dialogo incorpora, tra le altre cose, attribuzioni,aspettative e valutazioni del Sé e/o immagini e pensieri più o meno rilevanti per il compito.
Questa affermazione non è fatta intendendo che la gente stia sempre a “parlare a se stessa”. Al contrario, le persone si comportano di solito in modo “irriflessivo” e “come da copione”.
Comunque, in certe condizioni, possono entrare in gioco dei processi consci.
Per esempio, quando gli individui devono esprimere una scelta o un giudizio, come nelle situazioni incerte o nuove o quando devono soppesare possibili risultati e conseguenze, tendono a far affiorare le cognizioni e a parlare a se stessi.
Prima di un trattamento mirato al far rendere conto all’individuo dell’esistenza di tali processi, comunque, è improbabile che le persone possano osservare, consciamente e deliberatamente, i loro pensieri, le immagini e i sentimenti, se poste in situazioni di stress. Piuttosto, come hanno indicato Bandura (1969) a causa della natura abitudinaria delle proprie aspettative e convinzioni, è probabile che tali processi di pensiero divengano automatici e apparentemente involontari, come la maggior parte dei nostri atti sottoposti a continuo sovrapprendimento.
Il dialogo interno della persona, negativo e generatore di stress, diviene così uno stile abituale di pensare, per molti aspetti simile alla automatizzazione di pensiero che accompagna la padronanza di una abilità motoria come guidare una automobile o sciare.
Ciò nondimeno, l’operatore può aiutare una persona a rendersi sempre più conto di tali processi di pensiero e incrementare la probabilità che in futuro si accorga di questo dialogo interno e possa modificarlo.
In alcuni casi, gli eventi cognitivi possono assumere sia una forma visiva che una forma verbale.
La nozione di eventi cognitivi è in armonia con le considerazioni di Richard Lazaruset al.(1984).
Secondo questi autori il grado in cui una particolare situazione provoca una risposta emozionale dipende in larga misura dalla valutazione della situazione operata da quella persona e dalle sue abilità di gestire l’evento.
Un secondo modo con cui viene usato il concetto di cognizione è designato con l’espressione processi cognitivi.
Con essa ci si riferisce al modo in cui noi elaboriamo le informazioni automaticamente o inconsciamente, compresi i meccanismi di ricerca di dati e immagazzinamento e i processi inferenziali e di riattivazione. Questi processi danno forma alle rappresentazioni mentali.
La conoscenza personale dei propri processi cognitivi e l’abilità di controllarli rappresentano la metacognizione, che fornisce un’interfaccia tra ciò che si trova di norma fuori dalla consapevolezza e ciò che è invece accessibile alla valutazione, alla ricerca e al training.
Nella maggior parte dei casi, noi non prestiamo attenzione al modo in cui valutiamo le situazioni, al modo in cui badiamo selettivamente agli eventi e li richiamiamo alla memoria, al modo in cui ricerchiamo solo le informazioni che sono coerenti con le nostre convinzioni.
Il processo cognitivo che più ha avuto rilevanza per il training da me insegnato è quello della tendenza confermatoria, che in sostanza è un processo che tende in sé stesso alla propria realizzazione.
Noi percepiamo selettivamente, ricordiamo e interpretiamo l’esperienza in modo tale da filtrare ed eliminare le mancate conferme.
Mahoney (1982) chiamò feed forward il processo per tramite del quale l’individuo tende a selezionare in anticipo e percepire gli stimoli che sono congruenti. Mentre una persona cerca e poi conferma i propri convincimenti, questi ultimi diventano più attivi.
Per esempio, gli individui balbuzienti preoccupati di far brutta figura a causa dei propri blocchi nell’eloquio, possono esaminare l’ambiente circostante alla ricerca di segnali di potenziale stupore o fastidio nei propri interlocutori e in tal modo rischiano di fraintendere qualche evento, interpretandolo come affronto personale. Un simile tipo di valutazione può indurre conseguenze interpersonali tali da confermare poi le preoccupazioni della persona. In questo modo l’idea di far brutta figura diventa progressivamente sempre più dominante.
Tali spirali cognitive diventano sempre più invasive e autoreferenziali, attivando particolari tendenze emozionali e comportamentali.
L’obiettivo di PsicoDizione è di spezzare queste spirali.
Snyder (1974) ha descritto come delle presupposizioni non verificate di una persona possano condurla a comportarsi in modi che causano particolari reazioni negli altri, reazioni che, a loro volta, confermano le convinzioni disadattative della persona. In questo modo, viene creato e perpetuato un ciclo controproducente.
Questo fenomeno del “chi cerca trova” è molto ben illustrato in un suo studio, secondo l’autore quei soggetti che immaginavano che gli altri fossero molto competitivi si comportavano di conseguenza in modo competitivo nei loro confronti.
Ciò, a sua volta, produceva controrisposte competitive che confermavano così la loro visione competitiva del mondo.
La supposizione iniziale di una persona è dunque in grado di agire come una profezia che si autoavvera.
Potrebbero essere offerti molti esempi clinici di questo processo.
Per esempio, può darsi che l’individuo balbuziente con comportamenti evitanti (per timore di essere al centro di ilarità da parte dei suoi interlocutori), confermi la sua supposta indesiderabilità per tramite di un comportamento sociale eccessivamente sulla difensiva, che contribuisce alla sua emarginazione sociale.
Tale suo rifiuto sociale viene a sua volta assunto come prova della supposizione iniziale sul proprio scarso valore personale.
Gli individui balbuzienti caratterizzati da questo carico eccessivo di stress provocano spesso negli altri delle risposte che confermano le loro convinzioni disadattive.
Una simile tendenza confermatoria riveste importanti implicazioni per il ruolo della prevenzione delle ricadute nel metodo “PsicoDizione”.
Gli individui sono propensi a interpretare le battute d’arresto nel percorso di trasformazione come conferma della loro incapacità di fronteggiare e gestire le situazioni di estrema ansia.
LA BALBUZIE SECONDO “PSICODIZIONE”
Il metodo “PsicoDizione” incentra la sua strategia di intervento, non sul “calmare” il soggetto in presenza o meno di blocchi pneumofonici, ma sull’anticipare il problema non facendo arrivare "nel pensiero" questi blocchi tipici della balbuzie.
Questo è un approccio che inverte la tradizionale modalità di intervento rispetto al problema.
Infatti, quella che presento, è una strategia che tende a prevenire le anomalie che portano al manifestarsi della balbuzie stessa, rieducando, nei balbuzienti, il modo di pensare la frase, gustando ogni sua parte, sentendosi totalmente presenti quando si comunica.
Si sviluppa un lavoro di riscoperta della bellezza dei suoni che si pronunciano che porta la persona non solo a prevenire la sensazione del blocco già a livello di pensiero, ma anche a creare con competenza ogni passaggio della frase.
Quasi come un attore che studia per diventare un professionista della parola.
Mi sono assicurata, dunque, di creare una metodica che fosse uno strumento reale in mano ai balbuzienti, scegliendo di non intervenire sulle cause che sono all’origine del disturbo, sia perché sono molteplici e specifiche per ognuno, in molti casi nemmeno rintracciabili, sia perché, a mio parere, anche risolte le cause, persisterebbe comunque la ormai appresa disabitudine al parlare.
Il metodo “PsicoDizione”, avendo come obiettivo il non far percepire la sensazione di “inceppo” già dentro a sé a livello di pensiero, è utile in tutte le tipologie di balbuzie, indipendentemente dall’età in cui si è manifestata, dalla tonica alla clonica a quella mista, perché non si sofferma sulla diversa peculiarità di manifestazione dei blocchi, ma rieduca l’eloquio e soprattutto l’atteggiamento della persona verso l’eloquio, nella sua struttura globale.
Quindi, una volta imparato “lo stare dentro a ciò che si vuole dire” durante il corso, si risolve ogni tipo di effetto secondario alla balbuzie stessa (per chi i blocchi tonici, per chi le interruzioni di respirazione, per chi le ripetizioni di sillabe o consonanti, per chi i tic, per chi la sensazione di assenza, per chi la “nebbiolina mentale” anche in assenza di blocchi nel linguaggio, ecc…).
Esiste infatti, nell’ambito delle tipologie sin qui descritte, la balbuzie associata ad uno o più tic e sincinesie, movimenti involontari che accompagnano o anticipano l’emissione del suono (per esempio la contrazione delle palpebre, la reclinazione della testa sul tronco, più movimenti di muscoli mimici, il movimento di piedi o braccia sulle cosce, ecc…).
A queste sincinesie manifeste vanno poi aggiunte quelle che si verificano a livello fisico interno.
Di particolare importanza è l’eccitazione o il blocco totale deldiaframma, muscolo a forma di cupola che separa il torace dall’addome e regola la respirazione.
Una situazione di tensione vissuta in sede diaframmatica affatica la persona nell’emissione dell’aria per produrre il suono.
Questo è un equivoco che va chiarito, in quanto spesso porta molti a ritenere che il balbuziente respiri male e che, in conseguenza a ciò, si verifichi il blocco di linguaggio.
Il processo reale è esattamente opposto.
La cattiva espirazione sonora è , infatti, una conseguenza, e non una causa, della balbuzie. Tanto è vero che la persona, quando è in assenza di stress ha un normale processo inspiratorio ed espiratorio, respira bene.
Il tutto subisce una battuta d’arresto solo quando è presente l’emozione.
A quel punto egli perde il controllo dei tempi di emissione e, qualche volta, anche d’immissione (da cui la frequente sensazione di aver bisogno d’aria per poter proseguire la frase).
L’invito degli interlocutori ad effettuare “un bel respiro” prima di parlare è quindi completamente inutile, anzi, dannoso perché aumenta la tensione nei muscoli del diaframma. Si crea un vero e proprio “blocco a livello fisico” di interruzione di aria, di contrazione muscolare, di caduta di intenzione comunicativa.
Inoltre, come afferma Sigurtà (Sigurtà e De Benedetti, 1956), il soggetto disturbato è già affetto da un complesso preparatorio che lo proietta all’errore.
Pertanto ogni ulteriore azione precedente l’emissione sonora va ad aggravare questo complesso.
Il metodo “PsicoDizione” ha proprio la funzione di eliminare anche queste componenti preparatorie all’errore, infatti, iniziando la frase in modo controllato e mantenendo il controllo anche in centro e fine frase (grazie a metodiche imparate per gustarsi ogni particella della frase stessa), la persona mantiene le proprie attenzioni impegnate in un compito specifico e non ha né spazio, né tempo mentale per pensare che “forse sta per bloccarsi”.
Il training qui codificato si fonda sull’acquisizione di due diverse strade che conducono entrambe alla risoluzione del problema:
- la prima è la ri-educazione dell’essere presenti nell’eloquio, cioè l’apprendere e l’applicare nella pratica le regole che riportino ad una comunicazione non solo lineare, ma qualitativamente molto estetica
- la seconda consiste nell’imparare a utilizzare la sensazione di ansia a proprio vantaggio, invece che farsi confondere e sopprimere da essa.
Il balbuziente è, infatti, abituato a percepire l’inceppo, la relativa paura a pronunciare quella parola, l’emozione ad essa associata che può manifestarsi nel corpo, a livello di respirazione contratta o di batticuore, o di rigidezza agli arti, o altro. Dunque, è vitale che la persona impari a utilizzare questa emozione a suo vantaggio, deve usarla come benzina per divenire ancora più efficace nel suo modo di comunicare e non semplicemente aspettare che passi o fare finta che l’ansia non ci sia.
Il momento di svolta si ottiene, infatti, quando ogni partecipante al corso decide di andare ad affrontare situazioni in cui l’ansia è elevata e, malgrado l’ansia che percepisce, riesce ad ottenere un risultato soddisfacente dove prima trovava solo sconfitte o, magari, casualità.
Infatti, non possiamo pretendere che l’ansia scompaia in due settimane, essendosi formata un’abitudine negli anni, ma possiamo, malgrado quella sensazione di “certa sconfitta”, usare i due strumenti imparati durante il corso (quello del sapere dove indirizzare i propri pensieri e quello di gestione emozionale) ed ottenere un successo.
L’accumularsi di successi, malgrado, ripeto, la sensazione di ansia che si prova, crea un nuovo meccanismo che fa associare situazione=successo= posso comunicare bene, che permette alla persona balbuziente di aumentare la sua competenza come comunicatore e di sentire sempre di meno l’arrivo dell’ansia, contemporaneamente la saprà gestire sempre meglio e così l’ansia si ridurrà ulteriormente.
Si crea, dunque, una spirale positiva che rafforza le abilità di fronteggiamento della persona verso le più diverse situazioni ed, in conseguenza, una riduzione della percezione dell’ansia stessa.
La strutturazione del corso si sviluppa in due settimane di lavoro, in cui le lezioni durano due ore circa ogni singolo giorno.
Questa scelta deriva dalla necessità (rieducando il modo di sentirsi comodi nei suoni dalle sue basi), di fare un lavoro molto intensivo che, quindi, possa con più efficacia e minor sforzo andare a sostituire in tempi brevi i vecchi meccanismi su cui si costruivano le frasi e che portavano, prima o poi, a bloccarsi.
OBIETTIVI DEL PERCORSO DI “PSICODIZIONE”
La procedura di “PsicoDizione” rappresenta una delle varie modalità di intervento per far fronte al disturbo della balbuzie ed alle sue conseguenze disfunzionali sia in ambito socio-relazionale sia psicologico.
La procedura si inserisce all'interno del contesto degli interventi di terapia cognitivo-comportamentale.
Per merito, infatti, di figure come Meichenbaum, Bandura, Goldfried, Mahoney, la terapia del comportamento ha gradualmente assimilato le innovazioni teoriche del cognitivismo ed ha potuto sviluppare ulteriori ed originali potenzialità conoscitive ed operative dando vita ad un approccio integrativo che si è soliti indicare con la doppia aggettivazione “cognitivo-comportamentale” (cit. in Meinchebaum, 1990).
Nell'approcciarsi all'argomento della balbuzie e come questa possa produrre stress ed ansia e insoddisfazione, al punto di influenzare la vita di un individuo nelle sue relazioni sociali e nelle scelte che compie durante la sua vita, è da tenere in considerazione che essa risulta da un’interazione fra variabili ambientali e variabili dell’individuo, un’interazione nella quale le variabili di mediazione cognitiva assumono un ruolo precipuo.
Come ricorda Meinchebaum (1990), “le persone non sono vittime passive dello stress: sono i modi in cui le persone valutano cognitivamente e percepiscono emotivamente gli eventi stressanti, congiuntamente ai modi in cui valutano le proprie risorse psicologiche e le proprie capacità di far fronte allo stress, che finiscono col determinare gran parte del risultato finale nei fenomeni di stress”.
In particolare, nella reazione di stress, ben assimilabile a ciò che produce “l’evento-balbuzie”, viene sottolineata la distinzione fra due componenti sostanziali e distinte:
a) un’iperattivazione somatica;
b) cognizioni ed autoaffermazioni (“ciò che una persona dice a se stessa”) che accompagnano l’iperattivazione.
Viene sottolineato il ruolo delle cognizioni nel modulare l’intensità delle reazioni di stress, di paura ed ansia, di dolore.
“PsicoDizione” trova le sue basi proprio sull’assunto che è possibile sia controllare l’iperattivazione somatica sia modificare le autoaffermazioni ed il “dialogo interno”.
La prima si controlla grazie all’acquisizione di strategie comportamentali che permettono al soggetto di non rimanere “inerme effetto” della balbuzie, per esempio scoprendo come produrre i suoni di consonanti senza doverli addolcire perché se ne ha paura, oppure gustando i tempi della frase come momento di incontro con l’interlocutore, o sapendo come risolvere l’eventuale “blocco in partenza”.
La seconda si modifica attraverso “l’imparare a trasformare” l’emozione di ansia a proprio vantaggio, attraverso il confronto con il gruppo e con l’insegnante, con l’apprendere nuove strategie per interrompere pensieri controproducenti, sostituendoli con pensieri utili per un innovativo intervento di fronteggiamento della balbuzie.
La procedura di “PsicoDizione” è volta non tanto a modificare l’ambiente esterno e le sue eventuali valenze stressanti, quanto a sviluppare nel soggetto quella serie di capacità che possono essere utili per affrontare situazioni stressanti nel modo più comodo e di soddisfazione possibile.
Essa si inserisce, dunque, in un’ottica sia di prevenzione, per evitare di trovarsi nella condizione di avere difficoltà di eloquio ingestibili, sia di terapia rispetto agli eventuali blocchi in essere.
“PsicoDizione” va collocato, dunque, all’interno di un orientamento che privilegia l’importanza di sviluppare coping skills in funzione terapeutica.
Lo scopo è proprio quello di sviluppare quell’insieme (tuttora non del tutto esplorato) di competenze ed abilità cui l’individuo attinge nel far fronte alle situazioni problematiche e potenzialmente stressanti; a queste stesse abilità il soggetto attinge anche per aumentare le proprie capacità di tolleranza e di resistenza per poter così attenuare l’impatto emozionale ed i costi personali di situazioni ed eventi negativi e stressanti.
Tale orientamento, propugnato in primo luogo da Martin Goldfried (cit. in Meinchenbaum, 1990), allarga il concetto di sostegno al di là della risoluzione dei problemi specifici che caratterizzano la “domanda” da parte dell’utente.
Quest’ottica considera piuttosto il processo di intervento come un processo di graduale addestramento e crescita dell’utente, il quale diviene via via più abile nell’elaborare le mutevoli situazioni di vita e nell’affrontare i problemi che gli si pongono.
In un contesto siffatto, quello che viene acquisito non sono tanto le soluzioni specifiche a singoli problemi, ma piuttosto le strategie comportamentali e cognitive che possono essere usate per gestire vari tipi di situazioni problematiche.
Si va dunque da abilità banali di carattere abbastanza automatico (come la capacità e l’abitudine di distogliere intenzionalmente l’attenzione da pensieri autodistruttivi ed interrompere volontariamente rimuginazioni sterili), ad abilità più complesse che implicano uno specifico addestramento (come la capacità di abbassare l’attivazione emozionale attraverso il volontario uso di strategie nell’attesa di un evento altamente ansiogeno, imparando per esempio ad interrompere il crescere dell’ansia attraverso la la propria percezione di “essere con l’altro” prima di partire), a competenze che presumono una più ampia elaborazione personale e una più lunga sedimentazione, raggiunta attraverso il continuo “sperimentarsi” in situazioni prima mai affrontate (o vissute in balìa della balbuzie) e ora superate correttamente (aspettative realistiche di controllo interno e di autoefficacia; convinzioni adeguate e capacità di ristrutturare agilmente le convinzioni che si rivelino erronee; un senso personale di fiducia nella propria capacità di poter padroneggiare anche le situazioni estreme).
In particolare quest’ultima abilità la si sviluppa nella pratica quotidiana, quindi i partecipanti al corso avranno modo di confrontare l’aumento di queste acquisizioni attraverso lo scendere in campo e confrontando costantemente la vita con efficacia.
Un simile orientamento implica che il conduttore non sia un solutore di problemi altrui, ma un consulente/supervisore che lavora in collaborazione con il proprio cliente al fine di aiutarlo ad analizzare la realtà e ad interagire poi realisticamente ed efficacemente.
Il programma di training messo qui a punto, dà molta enfasi alla tecnica e alle specifiche abilità che vengono insegnate alle persone, ma non dimentica l’importante ruolo svolto dal rapporto tra partecipanti ed operatori, che fornisce lo sfondo di riferimento in cui le abilità di coping possono essere insegnate al meglio.
Waterhouse e Strupp (cit. in Meichenbaum, 1990) hanno sottolineato di recente il ruolo della relazione operatore-utente come “mediatore” di cambiamento comportamentale.
Secondo la loro descrizione, l’abilità dell’operatore di costruire un rapporto, di trasmettere un senso di fiducia nel fatto che “sono con te in questa faccenda”, di stabilire una relazione di lavoro collaborativa, tutte queste condizioni facilitano il cambiamento.
Queste considerazioni sono alla base della scelta di permettere-richiedere ai partecipanti al corso di venire a frequentare anche i successivi corsi per dare sostegno ed incoraggiamento ai nuovi partecipanti.
Questo, per me, è la miglior garanzia che da subito si possa instaurare, all’interno dei gruppi di lavoro, il senso di collaborazione e fiducia.
Dal lato dei “veterani” vi è la grande responsabilità di dare tutto l’appoggio possibile alle persone affinchè anche loro sperimentino il successo alla fine del corso.
Dal lato dei nuovi partecipanti vi è la sensazione di essere in buone mani, e di essere compresi fino in fondo, visto che anche “i veterani” hanno sperimentato lo “status” di balbuziente, oltre al fatto che si crea una profonda fiducia nel metodo derivante dal poter riconoscere i risultati a lungo termine sulla sottoscritta o sui ragazzi stessi che già hanno partecipato con successo al corso.
Hanno, insomma, davanti agli occhi un costante esempio di buona riuscita.
Autore Dott.ssa Chiara Comastri ( 2007 )
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